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LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO PER INSULTO SU FACEBOOK - L’Avvocato del Lavoro Milano

LICENZIAMENTO ILLEGITTIMO PER INSULTO SU FACEBOOK - L’Avvocato del Lavoro commenta:

Il lavoratore dipendente può essere licenziato dopo aver insultato un suo superiore su Facebook?

-risponde l’Avvocato del Lavoro.

Cari lettori, l’Avvocato del Lavoro di Milano e l’Avvocato del Lavoro di Torino in questo articolo analizza un tema molto importante che riguarda il licenziamento di un dipendente il quale ha insultato, all’interno di una chat chiusa di Facebook l’amministratore delegato della società, commentando una recente sentenza della Cassazione (n. 21965/2018)

L’Avvocato del Lavoro preliminarmente chiarisce un punto essenziale: criticare è lecito, offendere no. Chi parla male dell’azienda può essere licenziato. Chi pronuncia in pubblico offese contro il datore di lavoro può, inoltre, essere querelato per diffamazione (e ovviamente licenziato). In questo contesto normativo, è molto importante comprendere i confini tra reato e libertà di pensiero (e di critica). Ci sono state, in passato, numerose sentenze, anche della Cassazione che hanno giustificato i dipendenti per aver usato parole forti nei confronti del datore di lavoro in un contesto aziendale conflittuale ed esasperato. A chi non riceve lo stipendio vien facile dire parolacce e minacciare. Bisogna quindi considerare la condizione di provocazione in cui si trova un dipendente mobbizzato o lasciato senza busta paga. E su questi i Giudici hanno spesso usato un metro permissivo. Ad esempio come rileva l’Avvocato del Lavro di Milano e L’avvocato del lavoro di Torino, la Cassazione ha ritenuto perdonabili le reazioni polemiche e violente a un comportamento ingiusto del datore di lavoro. Il clima teso e le minacce di un licenziamento o di una riduzione dello stipendio o di una sanzione ingiusta possono dar luogo a una ritorsione istintiva del lavoratore che “può starci” in un contesto arrivato ormai ai ferri corti. Se il richiamo del datore è eccessivo è naturale attendersi una reazione: non è obbligo del dipendente essere sottomesso e accettare anche gli abusi.

Nel caso di cui ci si occupa una guardia giurata aveva pesantemente apostrofato il dirigente della società per la quale prestava servizio su una chat composta da iscritti al sindacato, poi successivamente diffusa anonimamente.

Ma entriamo nel vivo dell’argomento.

Cosa succede se, effettivamente, si è superato il limite e la critica è sfociata in un pesante insulto? Quando la prova è contenuta in un gruppo chiuso di WhatsApp cui il datore di lavoro non ha accesso, è possibile usare la stampa come prova per querelare il dipendente per diffamazione?

Parlare male del capo su Facebook, come precedentemente sottolineato può costare il licenziamento. Questo perché il profilo, per quanto chiuso a una serie di contatti, è comunque frequentato da numerosi utenti ed è assimilabile a una piazza. Chi sparla con un post, quindi, diffama e risarcisce. Ma le cose non vanno allo stesso modo se ci spostiamo dal social network a una chat privata sullo smartphone come WhatsApp. Qui siamo dinanzi a una corrispondenza tra privati pertanto, in quanto tale, resta segreta.

Ciò che viene a mancare è quindi l’illecito, non solo la prova, che fa scattare e giustificare il licenziamento per giusta causa se le ingiurie sono scritte in un gruppo chiuso di cui fanno parte gli iscritti e il datore viene a saperlo per la spiata di un lavoratore: la segretezza della corrispondenza vale anche per le forme di comunicazione elettronica come chat private, newsgroup o mailing list che hanno l’accesso condizionato al possesso di una password, come ha stabilito la Corte Costituzionale (Corte Costituzionale, sentenza n. 20/2017). Dunque, se questo discorso vale per il gruppo chiuso su WhatsApp vale anche per la chat segreta su Facebook. Secondo la Cassazione non si può fare nulla contro il dipendente: è la stessa Costituzione che gli consente di comunicare riservatamente in quanto per aversi diffamazione è necessario il luogo pubblico.

Pertanto, la chat su Facebook o il gruppo di WhatsApp vanno considerati al pari di un luogo digitale di dibattito e scambio di opinioni chiuso all’esterno e utilizzabile solo dai membri ammessi.

In virtù di ciò, le conversazioni intervenute in un ambito sindacale circoscritto ad un gruppo limitato di persone, quali quelle veicolate nella chat su Facebook o di WhatsApp, costituiscono esercizio del diritto costituzionale alla libertà e segretezza di corrispondenza. Quest’ultimo comprende ogni forma di comunicazione, incluso lo scambio di opinioni e discussioni tramite i mezzi informatici resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia. L’esigenza di tutelare la segretezza delle comunicazioni scambiate tra i lavoratori inclusi nel gruppo fa sì che le eventuali offese nei confronti del datore di lavoro possono essere considerate un reato o causa di licenziamento.

Secondo la Corte dunque tutto ciò che viene scritto e dichiarato in un gruppo chiuso attivato su social network (nella specie, Facebook) da lavoratori sindacalmente esposti costituisce, prima ancora che legittima espressione del diritto di critica sindacale, forma di comunicazione privata in cui i lavoratori possono dare libero sfogo, anche attraverso l’utilizzo di espressioni “colorite”, alla propria insoddisfazione rispetto alla gestione aziendale.

Ma cosa rischia chi divulga i messaggi di una chat segreta?

L’Avvocato del Lavoro di Milano partendo dalla norma di riferimento del codice penale che punisce la diffamazione precisa che quest’ultimo viene posto in essere da chi offende l’onore di un’altra persona comunicando con almeno due persone. Ma è proprio in questa norma che si circoscrive la novità introdotta e affermata dalla Cassazione ovvero se la conversazione avviene in un ambito privato come nel caso di una chat tra dipendenti della stessa azienda, caso di cui ci si occupa, la segretezza della comunicazione va tutelata. Il messaggio postato all’interno della chat chiusa va assimilato alla corrispondenza privata, sigillata e inviolabile. Anzi, l’illecito lo commette chi rivela a terzi il contenuto della chat o del gruppo WhatsApp perché non sta facendo altro che violare il segreto della corrispondenza, comportamento che è punito penalmente.

Vuoi saperne di più e scoprire anche tu hai posto in essere un comportamento che possa pregiudicare il tuo posto di lavoro? Rivolgiti ad un nostro Avvocato del Lavoro di Milano o Torino! (Link a contatti)

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