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LICENZIARE VIA WHATSAPP È CORRETTO? E’ POSSIBILE UTILIZZARE LA CHAT DI WHATSAPP COME PROVA IN TRIBUN

- L’Avvocato del Lavoro commenta:

È da considerarsi legittimo il licenziamento comunicato dal datore di lavoro al lavoratore via WhatsApp? Può essere utilizzata in giudizio la messaggistica WhatsApp per incardinare un procedimento disciplinare? Si possono produrre in giudizio i messaggi trasmessi dal datore di lavoro ove emergono chiaramente direttive e orari in un rapporto di lavoro non regolarizzato?

-risponde l’Avvocato del Lavoro.

Cari lettori, l’Avvocato del Lavoro di Milano e l’Avvocato del Lavoro di Torino in questo articolo analizzano i quesiti poc’anzi citati, sempre più frequentemente sollevati dai lavoratori, analizzando sul punto una recente sentenza del Tribunale di Catania riguardante un licenziamento intimato tramite WhatsApp.

L’Avvocato del Lavoro chiarisce che i Giudici del Tribunale di Catania hanno stabilito che le modalità di licenziamento intimato tramite WhatsApp siano idonee ad assolvere l’onere di forma scritta, come stabilito dall’Art. 2 della L. n. 604/66.

Sul punto, il Tribunale ha chiarito e sancito che il documento informatico soddisfa pienamente il requisito della forma scritta e ha la piena efficacia di cui all’Art. 2702 c.c. quando vi è apposta una firma digitale, altro tipo di firma elettronica qualificata o una firma elettronica avanzata; in tutti gli altri casi, “l’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alla caratteristiche di sicurezza, integrità e immodificabilità” (art. 20, comma 1 D.Lgs. n. 82/05, modificato dall’Art. 20 del D.Lgs. n. 217/2017).

Un primo problema si crea in quanto la messaggistica WhatsApp non assolve in alcun modo alle prescrizioni normative in ordine alla individuazione del soggetto che intima il licenziamento, proprio in quanto comunicazione priva di sottoscrizione.

Il secondo problema concerne la decorrenza dei termini di impugnazione, il licenziamento infatti deve essere impugnato entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione scritta, tuttavia non vi è alcuna certezza sulla decorrenza stessa: la lettura di un messaggio potrebbe infatti avvenire anche dopo diversi giorni o verificarsi qualunque altro evento che ne impedisca l’immediata e certa lettura da parte del destinatario.

La giurisprudenza, senza approfondire l’argomento, ha tuttavia affermato che trattasi di “un documento scritto e il suo invio può essere più efficiente di una Raccomandata A/R perché la doppia spunta grigia e blu dà informazioni immediate su data e ora di consegna e lettura” (Trib. Roma, sentenza del 30.10.2017 n.8802 ), richiamando anche il principio espresso dalla Corte di Cassazione nel lontano 2007, quando ancora non era così diffusa la messaggistica social, secondo cui “la volontà di licenziare può essere comunicata al lavoratore anche in forma indiretta purché chiara”.

Oltre ai densi aspetti giuridici sopra esposti, si pongono delle considerazioni di etica aziendale, in quanto l’informalità e rapidità di tali mezzi mal si coniugano con il contenuto di una comunicazione di licenziamento, che deve essere trasmessa con il massimo rispetto della dignità e sensibilità di chi la riceve, anche per le ricadute sul piano personale, familiare e sociale che tale evento provoca nella vita di un lavoratore.

Un altro tema che assume sempre maggiore rilevanza è l’utilizzo di comunicazioni tra colleghi nelle chat di gruppo o attraverso post su profili Facebook, utilizzate dai datori di lavoro per incardinare un procedimento disciplinare e irrogare un licenziamento per giusta causa.

Il Tribunale di Milano con la sentenza del 29.11.2017 ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un sindacalista che aveva formulato espressioni denigratorie nei confronti del gruppo dirigenziale in un posto pubblicato su Facebook, invocando il diritto alla riservatezza della conversazione tra i partecipanti di un gruppo.

Ma ancora.

Il Tribunale di Milano, sempre in caso di licenziamento, ha ritenuto inutilizzabile la documentazione prodotta in giudizio da una società avente a oggetto conversazioni di una dipendente con alcune colleghe su programmi di messaggistica istantanea, in cui screditava l’immagine dei superiori gerarchici. In questo caso, il giudice in ragione del mancato assolvimento dell’onere probatorio e in assenza dei supporti informatici contenenti le conversazioni, ha dichiarato illegittimo il licenziamento e disposto la reintegra della dipendente.

Infine il Tribunale di Torino (sentenza del 15.01.2018 n. 55) ha sancito che i “messaggi inviati tramite WhatsApp, contenenti anche fotografie, possono contribuire a dimostrare l’attività di lavoro subordinato. Si tratta, infatti, di prove documentali che, insieme alle testimonianze, provano l’attività svolta come dipendente all’interno di una pizzeria”.

Come può ben desumersi dal panorama giurisprudenziale appena descritto, le domande iniziali non possono trovare risposte univoche, considerate le molteplici questioni che l’utilizzo delle nuove tecnologie solleva a livello sociale giuridico.

Vuoi saperne di più e scoprire tutta la disciplina inerente alla prescrizione presuntiva e le relative specifiche? Rivolgiti ad un nostro Avvocato del Lavoro di Milano o Torino!


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